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domenica 22 giugno 2008

Nucleare


Il crescente prezzo del petrolio, il vicino esaurimento
dei combustibili fossili e le questioni
ambientali rendono sempre più urgente la
necessità di risolvere la cosiddetta “questione
energetica” investendo in nuove fonti di energia.
Due le soluzioni proposte: da una parte la promozione
delle fonti rinnovabili (eolica, geotermica,
solare…), dall’altra il ritorno al nucleare,
che in Italia significherebbe la costruzione di
nuovi impianti o il recupero di quelli già esistenti,
chiusi dopo il referendum del 1987. Il
ministro Scajola ha dichiarato di voler optare per
quest’ultima scelta, spacciandola per sicura,
economica e pulita (“Solo gli impianti nucleari
consentono di produrre energia su larga scala, in
modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto
dell'ambiente”), ma è bene analizzare le ragioni
per cui l’energia atomica, invece, non può e non
deve essere considerata la risposta ai problemi
del nostro Paese e del resto del pianeta.
Partiamo da quello che di questi tempi è argomento
molto attuale: la sicurezza. Le centrali di
nuova concezione promettono miglioramenti da
questo punto di vista, ma se è vero che la probabilità
che si verifichino incidenti è bassa, l’entità
delle conseguenze è molto elevata, non solo per
quanto riguarda gli effetti immediati, ma soprattutto
per quelli a lungo termine, provocati
dall’esposizione cronica alle radiazioni ionizzanti
e dall’inquinamento delle falde acquifere
(basti pensare al disastro di Chernobyl del 1986,
ma anche a quello meno noto di Tokaimura del
1999). Inoltre non si può negare un legame
tecnologico tra la produzione civile di energia
nucleare e l'industria bellica: per produrre una
bomba atomica serve uranio 235 oppure plutonio
239 e la maggior parte delle centrali nucleari
usa uranio come combustibile e produce plutonio.
Quindi, poiché gli accordi internazionali di
non proliferazione non hanno mai funzionato,
uno stato in possesso di centrali nucleari può in
tempi relativamente brevi arrivare a fabbricare
queste armi. E limitare la produzione di materiale
fissile a pochi paesi fidati non è una strategia
efficace ad evitarlo, dato che lo stato che si
erge oggi a controllore autorevole della proliferazione
nucleare nel mondo, gli Stati Uniti, è
anche l’unico ad averne mai fatto uso. Non
dimentichiamo, poi, che queste centrali sono ad
alto rischio di atti terroristici.
Ci si ricollega così alla seconda questione: il
costo. Quello del nucleare appare a prima vista
tra i più bassi (circa 0,06 € per chilowattora), ma
in questo calcolo non si tiene conto di altri
fattori, oltre a quello fondamentale della produzione
di energia. Innanzitutto i costi di militarizzazione
delle zone circostanti le centrali e le
aree di stoccaggio per prevenire attentati e quelli
di assicurazione contro gli incidenti. Costruire
una centrale nucleare inoltre è molto dispendioso
e necessita di un lungo periodo di tempo (in
media 10 anni: i 5 promessi dal governo sembrano
quindi poco plausibili) a cui si aggiungono
i ritardi, che hanno un impatto significativo
sulle spese, poiché portano all’aumento gli
interessi totali sul capitale prestato per costruire
l’impianto. Vanno poi sommati a questi i “costi
opportunità”, ossia le perdite potenziali pari al
tasso di interesse perso se i fondi fossero stati
depositati in banca o occupati in altre attività
economiche e quelli per lo smantellamento della
centrale al termine dell’attività (solo per dismettere
quelle italiane serviranno 2,6 miliardi di
euro), la bonifica del territorio e lo stoccaggio
delle scorie.
Si giunge così all’ultimo, ma più cruciale,
elemento: le centrali nucleari producono rifiuti
radioattivi la cui gestione rimane un capitolo
aperto, poiché ancora nessun paese al mondo ha
individuato una soluzione definitiva.
Le scorie ad alta attività, come l' uranio usato
nelle centrali, infatti, hanno tempi di decadimento
di decine di migliaia di anni. Per questi
rifiuti serve quindi un deposito che garantisca
l'isolamento per un “tempo geologico”, compito
che solo una struttura naturale di provata stabilità
(cioè senza elevato rischio sismico, vulcanico
e idrogeologico) può garantire. Località del
genere però sono rare e difficili da individuare
anche a causa del cosiddetto “effetto Nimby”
(“not in my back yard”, ovvero “non nel mio
giardino”), cioè la renitenza della gente ad
accogliere sostanze nocive nei propri territori (e
la vicenda di Napoli ci dimostra ogni giorno
quanto sia vero). In ogni caso questa soluzione
appare solo come un modo per rinviare il
problema passandolo in eredità alle generazioni
future. Queste scorie, infatti, resteranno attive
per millenni nei quali non possiamo prevedere
cosa accadrà, quali saranno i mutamenti geologici,
sociali e politici.
Non dimentichiamo poi che il ritorno all’energia
nucleare da parte dell’Italia non modificherà gli
obiettivi vincolanti fissati a livello europeo per i
consumi italiani da fonti rinnovabili che
dovranno salire al 17% (contro l´attuale 5,2%)
entro il 2020 (l’energia nucleare infatti non è
considerata una fonte rinnovabile, pertanto non
è calcolata nel mix di fonti con il quale ciascun
paese deve raggiungere i target concordati).
Il nucleare non appare quindi una reale
soluzione alle esigenze e alle urgenze ambientali
ed economiche di oggi. Dovrebbe, prima di
essere messo in pratica, dare risposte esaurienti
alle questioni della sicurezza degli impianti, alla
non-proliferazione degli armamenti e al
problema delle scorie. Rinunciare al nucleare è
comunque possibile e auspicabile attraverso il
risparmio energetico massiccio e lo sviluppo
delle fonti di energia rinnovabili. Questo
significa eliminare gli sprechi, ridurre i consumi,
investire nella ricerca e nello sviluppo di risorse
più democratiche ed ecologiche, ma anche
adottare nuovi stili di vita per scoprire che si
può vivere meglio con meno.

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