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domenica 11 maggio 2008

Falci di dolore

Falci di dolore,

sonate d’assenzio,

lo squilibrio della sinfonia

lugubri emananti zingari

sognatori.

Di trementina è il sapore dell’acqua nelle vene,

torbide anime di uccelli si specchiano nelle vetrate fredde della città

a zig-zag

e percorrono i luoghi nascosti

e percorrono i luoghi emblematici

e sono sui muri bianchi della gente che cena

con la stanchezza di una gamba del tavolo,

con l’assurdità delle parole compromesso

prodromi-diagnosi di fertilità vacillante,

di insanità di pelliccia.

Di noi che siamo nei parchi,

di noi che siamo negli specchi.

Senza più tossine ma salotti

a dozzine, con bicchieri vuoti su balaustre lucidate,

quando nelle vie primaverili dell’estate

gli uomini sono un po’ più soli

e il sudore equivale ad amore,

le parole sono solo poesia sono solo rumore.

Sono solo un lurido sgorgare mentale,

brontolio di tubature di case popolari,

gli scarichi dell’universo,

il tepore tombale di giochi di bambini.

Nelle tastiere, signori, escogitiamo il nostro futuro,

suicidio-palazzo-venti piani il nostro obiettivo,

politica delle fogne,

estasi papale,

monumenti alle mattonelle,

monumenti a dio,

monumenti alla merda e sarà la stessa cosa.

Gli uomini si tatueranno geroglifici e manoscritti pubblicitari

e fileranno su cavi d’acciao la tensione sciapita delle loro membra

sopra cuscini di addii,

di braccia scomposte nel vento, di posti caldi alla mensa dei poveri.

Dialoghi sui cornicioni nella notte malaticcia,

tra due lune,

poveri piccoli uomini frustrati e maltrattati.

La notte dei tempi ride dei biasimi pusillanime

delle madonne meretrici,

delle casalinghe affrante,

dei papponi lubificati coi cazzi pieni di polvere,

dell’umanità fantagenetica,

pezzi di plastica ingoia diossina.

Và dal prete che il peccato è di nuovo cenere

e la coscienza sta con l’argenteria mille miglia a sud-ovest

con le unghie colme di sofferenza a ingurgitare fili di spago,

a far baruffa nella gola per tossire di morte tre-quattro volte ogni ora.

Benedetti dalla luce dei frigor,

qui siam tutti tranquilli,

loculi primitivi,

il leone e la gazzella.

Un giorno le macchie solari saranno abitazioni con un buon affitto.

Carta da parati e cumuli di grasso sono le nostre dita svelte,

serpenti nel deserto,

sospensori di cervelli,

a tenere le palle al fresco che se c’è da insinuar il becco

quello lo fanno tucani e pappagalli delle famiglie dei quartieri alti.

La felicità in pollici e nei distintivi.

Un due tre stella e siamo già statue di sale, buoni per i musei.

Maniche di subappaltati.

I frantoi sono pieni, la Vendemmia dio-amore,

scarica i testi sacri che in questo mondo c’è bisogno di santità,

ave o maria piena di seme riciclato,

marmoreo coi baffi,

la Verità ce l’ho solo io”,

cosca che ti fa il pizzo, l’eresia

un pretesto,

il dardo del potente, del maiale impalatore

ovvero stregoneria,

del prete mens sana in corpore sano,

stupido vile umiliatore, prepotenza divina.

Eccellenza, signoria, che la volontà sia pia.

IO BLASFEMO!, senza assicurazioni che sono per la sanità mentale.

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